domenica 22 giugno 2008

SPECIALE M NIGHT SHYAMALAN



Come tanti autori controversi, Shyamalan è amato da alcuni ma anche odiato da altri. Quando avvengono divisioni di questo genere vuol dire essenzialmente che l'autore ha delle grandi qualità che però non gli vengono riconosciute perchè, in qualche modo reputate esagerate. Quello che non si può negare è che Shyamalan abbia uno stile proprie e una poetica personale che ostinatamente porta avanti in tutti i suoi film. Tecnicamente il regista indo-americano ha avuto un approccio da studente indefesso, studiando nei minimi particolari la grammatica cinematografica di grandi maestri, su tutti Hitchock e Kubrick, e riproducendone la maniera di lavorare. Senza essere citazionista, Shyamalan riprende una scuola che vuole nei tempi e nel linguaggio della macchina da presa l'espressione prima con cui si comunica con lo spettatore. E' noto che Shyamalan utilizza una maniera speciale di montaggio creata da Walter Murch per cui ogni stacco è relativo al battere di palpebra dell'occhio umano per rendere quanto più fluida la narrazione e mantenere i tempi necessari per entrare nella storia. Questo non sarebbe sufficiente se la scrittura del regista non fosse consistente ed efficace. In questo caso il regista mostra una grande cura per i dettagli ed uno studio dei personaggi tutt'altro che unilaterale. Ogni protagonista dei suoi film è un individuo con caratteristiche universali e immediatamente riconducibili nel quotidiano, con cui è molto facile riconoscersi, eppure la sua esistenza e le sue azioni vengono rese straordinarie dalle sue qualità, e spesso non quelle sovrannaturali ma quelle umane, alle quali inconsciamente ci si lega di più. Questa stessa dicotomia viene trasposta agli eventi. Ogni volta vi è un evento incredibile e irrazionale che sostiene il succo della vicenda ma in realtà contiene un evento ugualmente eccezionale,spesso luttuoso,ma assolutamente reale e plausibile. Neanche questo sarebbe sufficiente se non fosse che Shyamalan, attraverso tutti questi accorgimenti tecnici, manda un messaggio, sempre lo stesso, verso lo spettatore. Priva di didascalismi, la parabola shyamalaniana risente molto di elementi culturali occidentali, soprattutto cattolici, insieme ad altri orientali. Le due spiritualità si fondono nella visione del regista che crede fermamente in una fede superiore capace di rendere eccezionale la propria vita. Nella versione fatalista di Shyamalan c'è un senso nelle qualità di ogni individuo e il proprio compito è quello di guardare agli eventi nel loro significato simbolico per comprendere questo compito. Spesso la realtà è velata e incomprensibile, cosa che il regista esprime quasi sempre in maniera simbolica con riprese crearte ad hoc, ma questo deriva da sovrastrutture autoimpostesi. L'incominicabilità è una delle barriere che spesso vengono infrante dai protagonisti dei suoi film, che vivono una situazione di dolore e disagio a causa di una opprimente incapacità di comunicare. E' nella comunicazione chiara e priva di pregiudizio che c'è il senso della narrazione, dell'espressione di sè e del linguaggio. Quasi inconsapevolmente Shyamalan arriva a parlare nei suoi film del senso della comunicazione e quindi di quello che fa intrinsicamente parlando cinema. E' una visione metacinematografica assoluta ed inedita, che essendo prestata a fini commerciali, spesso fa storcere il naso a qualcuno. In realtà il successo di tale narrazione e quindi la sua capacità di arrivare allo spettatore attraverso il linguaggio popolare del genere è la molla per cui essa si mantiene longeva. Senza il successo di pubblico (e recentemente questi problemi si sono ripresentati per l'autore) non è possibile potersi nuovamente esprimere. Questo concetto ciclico è naturalmente insito in qualsiasi forma di espressione ma ,come dimostra Lady in the Water, Shyamalan ne ha fatto il suo manifesto autoriale e lotta per portarlo avanti fino alla fine. Una forma di cinema a cui è bello guardare e che è giusto che esista.

Ad occhi aperti (Wide Awake, 1998)

Il sesto senso (The Sixth Sense, 1999)


Unbreakable - Il predestinato (Unbreakable, 2000)


Signs (2002)


The Village (2004)


Lady in the Water (2006)

E venne il giorno (The Happening) (2008)

a cura di Gianluigi Perrone

lunedì 16 giugno 2008

SPECIALE E VENNE IL GIORNO : FILM VERSUS SCRIPT


Andiamo per gradi. Con all'attivo quattro successi commerciali, di cui almeno due eclatanti (Signs e Il Sesto Senso),M. Night Shyamalan sente di poter pretendere di più dalla casa di produzione che aveva contribuito ad arricchire, la Disney,e decide di passare ad una produzione propria per realizzare la sua opera più personale ed ambiziosa ma al contempo più ostica, Lady in the Water, cestinata da Nina Jacobson, executive della Disney. Il rischio fu altissimo. Shyamalan decideva di fare di testa sua su un film che si discostava notevolmente dai modelli che aveva proposto al pubblico e dopo The Village che da molti era stato percepito come un inganno. Nonostante fosse un ottimo film, Lady in the Water spiazzò il pubblico che abbandonò il regista e il film divenne un flop. La cronaca di questa incredibile impresa cinematografica è raccontata nel libro The Man Who Heard Voices: Or, How M. Night Shyamalan Risked His Career On A Fairy Tale di Michael Barbenger. Dopo il flop Shyamalan si trova, per la prima volta in anni, in ginocchio senza la sicurezza di una libertà che gli permetta di dirigere l'opera come dovrebbe. Ovvio che il regista, sempre stato buon menager di se stesso, decide di dirigere un film simile a Signs, il suo maggior successo. Ed infatti il suo nuovo script, the Green Effect, ha elementi simili al film con Mel Gibson, ispirandosi a classici come La Notte dei Morti Viventi, L'Invasione degli Ultracorpi e Uccelli, anche se su ambientazioni all'aperto. Prima dell'uscita del film, misteriosamente viene fuori la sceneggiatura del film. O meglio, quello che doveva essere lo script prima delle richieste di cambiamenti della Twentieth Century-Fox, scelte per Shyamalan inappellabili che cambieranno radicalmente il film. Quella che segue è una review che rilegge il film secondo lo script originale. Innanzi tutto il titolo, che era il senso del film. The Green Effect svela il significato dell'anello umorale che porta Mark Wahlberg. Il dialogo a cui fa riferimento l'oggetto dava senso al film perchè il colore dell'amore di cui parlano Elliot e Alma è proprio verde ed il titolo prendeva significati diversi. Infatti il senso originale del film era quello di una storia d'amore che rinasceva attraverso la fede dei personaggi, un tema amato dal regista. Dalla relazione tra i due protagonisti viene tagliata la parte iniziale, che apriva il film prima della scena horror, in cui si apprendeva il loro disagio e la deriva della loro relazione. In questo caso si capiva, nel finale, che il fatto che non venissero attaccati dall'infezione era dovuto all'emotività dei personaggi, che dopo lo struggente dialogo attraverso il tubo (scena tipicamente shyamalaniana)trovavano l'empatia per sopravvivere alla neurotossina. Se nel prodotto finale i personaggi non sembrano approfonditi, compreso quello di Leguizamo, è proprio perchè sono stati tagliati i dialoghi e velocizzato il montaggio. Se queste scelte sono evidentemente mirate a non annoiare il pubblico (come il finale più fatalista rispetto a quello buonista che vedeva completamente debellata la malattia), sono probabilmente di budget le scelte che hanno fatto tagliare alcune delle scene più forti. Su tutte preme raccontare una scena in cui, durante un saggio musicale, un violinista si incantava per poi ingoiare il proprio violino come un mangiatore di spade. Anche la scena in fattoria era ben più lungo, evidentemente ridimensionata nella scenografia con la sola mietitrebbia. Nella parte finale vi erano anche scenografie più importanti riguardo alla fattoria della vecchia bigotta. Le differenze più sostanziali sono comunque nel montaggio che ha voluto dare più spazio agli eventi che ai personaggi. Il potenziale che la sceneggiatura proponeva è stato purtroppo castrato da scelte produttive a cui prima Shyamalan non avrebbe dovuto sottostare.

di Gianluigi Perrone

venerdì 30 maggio 2008

CANNES 2008


Potevamo esordire con un Cannes banale, dicendovi che Eastwood è stato divino e che Soderbergh ha deluso. Ma questo si poteva pure immaginare. Che i Dardenne ci hanno rotto le palle e che Wenders non ha più lo smalto di un tempo. Mica ci volevamo noi per dirlo. Invece andiamo a vedere a Cannes che diavolo è successo in mezzo al mercataccio dove molta roba che non vedremo mai, o chissà quando, ci viene sbattura in faccia. E tra le cose migliori delle sezioni non ufficiali, dove si vedono film veramente deliranti. Però non dimentichiamoci che quest'anno l'Italia ha vinto, e con due film con le palle che, se tanto mi da tanto, non rimarranno casi isolati.
Oltre ai film di Garrone e Sorrentino che ci rendono fieri della bandiera, si va dal film della figlia di Lynch (dopo Boxing Helena), al bellissimo Messicano Los Bastardos, al durissimo The Hunger al documentario sulle zozzerie di Polanski. E poi ancora i nuovi di Kyioshi Kurosawa e Shin'ya Tsukamoto, un bell'erotico scritto da Arriaga e un bel po' di horror o similtali. Nuovo Boll,il primo di Bruce Campbell,un norvegese tosto ed un canadese un po' meno. Il ritorno di Anthony Hickox e di Rob Schmidt (quello di Wrong Turn). E per finire l'immancabile massacro francese con Martyrs. Ecco la nostra selezione di Cannes!

GOMORRA

IL DIVO

SURVEILLANCE

LOS BASTARDOS

THE HUNGER

ROMAN POLANSKI: WANTED & DESIRED

TOKYO SONATA

NIGHTMARE DETECTIVE 2

EL BUFALO DE LA NOCHE

MARTYRS

ROVDYR

TUNNEL RATS

MY NAME IS BRUCE

THE ALPHABET KILLER

KNIFE EDGE

SCARCE

giovedì 17 aprile 2008

SPECIALE UWE BOLL

Uwe Boll è un fottuto genio. L’ha detto ultimamente in varie interviste e perché non credergli? Il regista tedesco è l’unico che ha continuato a girare flop più o meno disastrosi senza mai tuttavia smettere di girare. La gente si chiede come faccia e lui ironicamente in “Postal” rivela che per i suoi film viene usato “l’oro rubato dai nazisti agli ebrei”. Uwe Boll nasce nel 1965, è interessato alla letteratura tanto che nel 1995 prende il dottorato. Nel 1991 gira il suo primo film in compagnia dell’amico Frank LustingGerman fried movie”, commedia dissacrante proprio sulla società tedesca che non risparmia scorrettezze anche basse verso le manie del suo Paese. La sua seconda opera “Barschel - Mord in Genf?” è un film ancora più politico che cerca di tracciare ipotetici fili che uniscono la (vera) morte di un politico con collusioni mafiose. Ma è il suo terzo film “Amoklauf” che rivela con tutta la sua sconcertante crudezza la grandezza registica di Boll, in un’opera nichilista che sfocia nel sangue più rabbioso. E’ subito la volta di “Das erste semester”, commedia amarognola che usa un intreccio goliardico da college movie per parlare ancora dei problemi della Germania. Da qui il passo importante per l’America è vicino: tra il 2001 e il 2003 Boll gira tre produzioni a basso costo, due di esse tra le più interessanti della sua carriera. Il primo, “Sanctimony” è il nadir del cinema di Boll, un’opera sciatta che si rialza a fatica per un paio di belle idee, ma vergognosa nel plagiare senza estro il libro “American psycho” di Bret Easton Ellis. “Blackwoods” invece è un’interessante e originale storia di fantasmi che resta forse il punto più alto di Uwe Boll nel cinema fantastico orrorifico. Sul set Boll incontrerà Will Sanderson che diverrà presenza fissa delle sue produzioni. Il 2003 è l’anno di “Heart of America”, pellicola che parla del tragico massacro di Columbine, opera ferocissima e bellissima, che è forse il capolavoro del regista. Sempre il 2003 gira il suo film più controverso “House of the dead”, detestato dai fan del videogame omonimo e girato con uno stile frizzante e brioso. Ancora peggio succederà però con “Alone in the dark”, film definito da molti uno dei più brutti mai girati, ma dotato di un’ottima tecnica che paga una sceneggiatura imbarazzante. I siti internet si accaniscono su Boll definendolo l’Ed Wood del cinema moderno a volte anche in bizzarre stroncature palesemente fatte solo per partito preso. La produzione di Boll da qui in avanti è inarrestabile, nascono il vampire movie medioevale “Bloodrayne” e il suo seguito western, l’action comico “Postal”, il fantasy da 60 milioni di dollari “In the name of the king”, il delirante horror “Seed” e presto verranno alla luce gli imminenti “Far cry” e “Tunnel rats”. Prerogativa di ognuno di questi film è essere tratto da un videogame (a parte Seed) che Boll molte volte usa solo come pretesto per imbastire storie diverse. E forse da qui la rabbia dei fan. Ma Boll che è un diplomatico si lancia in invettive come gli odiati Michael Bay e Eli Roth e sfida a cazzotti i critici. Intanto nascono petizioni pro e contro Boll per farlo smettere o incoraggiare a girare. Voi potete firmare, ma occhio se vi scopre potrebbe legnarvi. Se non è un genio quest’uomo…

- German Fried Movie (1991)

- Barschel - Mord in Genf? (1993)

- Amoklauf (1994)

- Das Erste Semester (1997)

- Sanctimony (2000)

- Blackwoods (2002)

- Heart of America (2003)

- House of the Dead (2003)

- Alone in the Dark (2005)

- BloodRayne (2005)

- In the Name of the King (2007)

- Seed (2007)

- Postal (2007)

- BloodRayne II: Deliverance (2007)

a cura di Andrea Lanza***

giovedì 3 aprile 2008

SPECIALE ALEX DE LA IGLESIA


Il signor Alex De La Iglesia nasce il 4 dicembre del 1965 a Bilbao. Già dalla tenere età, dai dieci anni circa, inizia a coltivare la sua prima grande passione, il fumetto. I suoi idoli e padri spirituali sono Alex Raymond, Stan Lee e Vázquez. Voleva però ampliare la sua cultura e così di iscrive all’università di Deusto dove, secondo quello che racconta divertito, ha passato la maggior parte del tempo tra il bar e la cineteca, a quanto pare la passione per il cinema non tardava a farsi sentire. Maturata la decisione di dedicarsi al mondo della settima arte prova ad introdursi in esso lavorando per la televisione, inizia come decoratore e si occupa tra le altre cose della direzione artistica di alcuni prodotti di successo. Da quel momento il balzo per entrare nel mondo del cinema è sempre più vicino.Nel 1991 gira il suo primo e unico corto da regista e sceneggiatore, si tratta di MIRINDAS ASESINAS, il quale riscuote un notevole successo aggiudicandosi anche alcuni premi girando per vari festival. Ma la cosa importante è che con questo corto il già famoso Pedro Almodóvar nota il talento del giovane regista e decide di investire in lui. Alex De la Iglesia aveva già in mente il suo secondo corto, si sarebbe chiamato PIRATAS DEL ESPACIO e la sceneggiatura era di Jorge Guerricaechevarría, futuro collaboratore del nostro negli anni a venire. Almodóvar, con la sua casa di produzione EL DESEO, decide di produrre il progetto a patto che sia un lungometraggio. Detto fatto il corto viene sviluppato fino a diventare un film vero e proprio e nel 1993, col titolo di ACCION MUTANTE, abbiamo l’esordio vero e proprio di Alex De la Iglesia. Il film riscuote successo e riceve 3 Premi Goya, viene premiato al Festival del Cinema Fantastico di Montreal. Diventa quindi il regista più promettente dell’anno! Con il secondo film EL DIA DE LA BESTIA il registra trionfa! Ottiene ben 6 Premi Goya, tra cui quello alla Miglior Regia, grandi applausi si sentono da critica e pubblico nei festival di Venezia, Toronto e Sitges e oltre ai riconoscimenti il film rappresentare il maggior incasso ai botteghini di quell’anno in Spagna. Il successo di questo capolavoro segna l’inizio di un periodo di crisi e per risolvere il problema gira un film, PERDITA DURANGO del 1997, un po’ fuori dai suoi canoni, visto che lo gira in America e si tratta di una sorta di road movie, con risultati oltretutto più che buoni. Dopo aver cambiato aria per un po’, Due anni dopo, nel 1999, gira il suo secondo capolavoro, una toccante e drammatica epopea dal titolo MUERTOS DE RISAS che vede una delle migliori interpretazioni di Santiago Segura, attore che Iglesia utilizza più volte nei suoi film. L’hanno seguente, siamo nel 2000, è la volta de LA COMUNIDAD, tragicommedia a toni grotteschi che sbanca i Premi Goya, da questo momento in poi il regista inizia a diventare produttore di se stesso, creando la PANICO FILMS attraverso la quale girerà 800 BALAS, una sorta di omaggio allo Spaghetti Western, ma pieno di sorprese. Con CRIMEN PERFECTO del 2004 si torna allo humor più nero, siamo sulle atmosfera de LA COMUNIDAD. Attualmente è uscito OXFORD MURDERS, film girato tra Londra e Oxford con Elijah Wood come protagonista. Alex De La Iglesia ama definirsi un ragazzino che non è mai cresciuto, nel senso che ama fare le cose che faceva da ragazzo come collezionare fumetti, guardare serie televisive e ridere e scherzare con gli amici. Non a caso mantiene un rapporto stretto con i suoi fans ed è una persona molto alla mano. La sua filosofia riguardo al girare un film è la consapevolezza che qualsiasi lavoro andrebbe apprezzato e dovrebbe essere un piacere svolgerlo. Durante le lavorazioni dei suoi film è sempre molto premuroso nei confronti degli attori e di tutta la troupe. Si preoccupa che tutti siano a loro agio, si lavori di comune accordo e che il lavoro, sebbene a volte i ritmi siano feroci, risulti il più leggero possibile. In questo modo e con questo ambiente si ottiene di più oltre che da se stessi anche dagli altri. Nel suo stile personale ed estremamente originale si intravede quasi sempre un’anima grottesca, alcuni personaggi e situazioni si possono situare nel genere caro al nostro Marco Ferreri. In film come LA COMUNIDAD assistiamo a messe in scena che sono molto vicine a quelle del teatro, non a caso la collaborazione con Carmen Maura, bravissima attrice di teatro oltre che di cinema, inizia proprio con quel film. Iglesia non si tira mai indietro, è molto critico e spesso mostra cose molto forti in maniera naturale, ossia rendendo l’impatto brutale facendole apparire cose quotidiane e insite nei nostri costumi sociali. Caratteristiche come le manie di vario genere, la sopraffazione, addirittura la pedofilia viene accennata in maniera incisiva, come in PERDITA DURANGO ad esempio. Il regista di origine Vasca è dispettoso, nei suoi film infila dentro dei veri e propri capricci visivi che rendono il suo stile unico e molto raffinato, stupefacente e mai fine a se stesso o scontato. Alex De La Iglesia ha l’arte di stupire senza sforzarsi a farlo, nel senso che mette in scena paradossi senza il benché minimo sforzo, in maniera naturale. Lo humour è più che presente nelle sue opere, sebbene si tratti di humour del più nero, ci si trova a ridere durante atrocità e situazioni al limite dell’umano, in cui i sentimenti diventano contrastanti creando un’atmosfera del tutto peculiare. La sua filmografia è un viaggio nella natura umana e negli istinti umani che rappresentano “l’altra faccia” di ogni persona, ogni essere è una sorpresa e il mondo è estremamente vario, reale e proprio per questo osservabile da infinite angolazioni. Anche la persona più semplice o apparentemente inutile viene ritratta accuratamente sebbene per pochi attimi, e diventa la rappresentazione di una delle molteplici realtà in cui viviamo, tutti, nessuno escluso. Sono spesso i personaggi di secondo piano ad avere le caratteristiche più ferocemente peculiari nei film di Alex, anche un semplice dispensatore di volantini per la strada può avere una grande importanza, come quello all’inizio di EL DIA DE LA BESTIA, personaggio che si vede per pochi secondi ma attraverso poche parole e movimenti ci comunica lo stress e la malinconia della società moderna in una maniera inequivocabile. Alex De La Iglesia è giovane e ha molto cammino davanti a se nell’ambito della settima arte, con grande curiosità le sue opere vengono attese ogni anno dai suoi fedelissimi fans e non solo.


2007 - Oxford Murders - Teorema di un delitto

2004 - Crimen perfecto

2002 - 800 Balas


2000 - La comunidad - Intrigo all'ultimo piano

1999 - Muertos de Risa

1997 - Perdita Durango

1995 - El dia de la bestia

1993 - Azione mutante


a cura di Davide Casale

venerdì 18 gennaio 2008

ROB ZOMBIE'S HALLOWEEN SPECIAL



I, Zombie - Duplicating

Nella miseria abbandonata tra le macerie dell'horror americano, l'opera cinematografica di Rob Zombie è arrivata come la stella oltre le stelle, come aspettativo di ciò che, secondo le ragioni del tempo, diventa culto. Pochi hanno fatto in vita quello che ha realizzato Rob. Una carriera musicale che sovverte completamente le regole con una proposta inedita che farà scuola, i White Zombie, e che palesa molta della passione cinematografica del bizzarro cantante, collaborando spalla a spalla con leggende come Alice Cooper, i Kiss e Ozzy Osbourne. Una carriera di fumettista insieme a Steve Niles che fa parlare di sé grazie a proposte interessanti come The Nail e Spookshow. Un flirt con il cinema grazie a numerose apparizioni su colonne sonore di successo e la regia di tutti i video musicali della sua carriera con la vittoria di un MTV Awards. Le mire erano chiare e facendosi strada a graffi e a morsi Rob riesce a rendere corporei i suoi “incubi di stricnina”. House of the 1000 Corpses rappresentava una continuity sul fil rouge di quel delirio fumettistico-weirdo-citazionista che era la musica dei White Zombie e consequenzialmente della carriera musicale solista di Rob, in un fulgore di colori polposi che si riflettevano sulle deformità bizzarre delle creature che popolano il suo mondo. Una proposta interessante e apprezzata dai più che però viene spazzata via dall'opera seconda, quel The Devil's Rejects che rivelò qualcosa di più di un mestierante attento e visionario. Un lavoro maturo e scevro da tutti quei divertissement infantili che rivelavano un lato molto più furioso e ribelle del rocker newyorkese, avvolgendo nel mito le vite delle tre implacabili figure principali, costringendo lo spettatore ad un pesante compromesso morale. The Devil's Rejects arriva in maniera shockante nella percezione degli appassionati del genere che avvertono nell'autore una maturità ed un potenziale tale da poter regalare opere di spessore sempre maggiore. L'attesa per il nuovo progetto di Rob Zombie diventa febbrile subito dopo aver assimilato il colpo di The Devil's Rejects e arriva come un fulmine a ciel sereno la notizia che, invece di una sceneggiatura originale e più autoriale, il regista decide di rifare la storia di Halloween di John Carpenter. Vediamo perchè.

Devilman – running in my Head

L'impossibile massa di rifacimenti che ha affollato le sale a causa di una grave penuria di idee(o di voglia di osare,piuttosto) da parte di Hollywood ha falsato, negli ultimi lustri, l'idea originale nel termine remake. Che siano vacue rivisitazioni di miti del passato come Texas Chainsaw Massacre di Nispel o Dawn of the Dead di Snyder, riappropriazioni illecite di culture asiatiche come tutto il filone dei remake del J-horror, oppure veri e propri suicidi commerciali come The Wicker Man, la sensazione di accumulo immotivato è talmente palese da creare immediatamente diffidenza nei confronti di operazioni del genere. In realtà dimentichiamo la vera natura del remake come omaggio e rielaborazione autoriale di un mito del passato. Riusciamo ad immaginare il sollevarsi di polemiche riguardanti alla produzione del Nosferatu di Herzog, o de La Mosca di Cronenberg o ancora, rimanendo in zona Carpenter, la sua personale visione de La Cosa? Nel discorso Halloween,il background musicale di Rob Zombie viene in aiuto per spiegare il suo approccio all’opera. Il regista/rocker fa una “cover” personale del cult di Carpenter, mantenendo gli stessi accordi ma accordando gli strumenti secondo i suoi tempi, adattand il pezzo al suo stile e rendendolo personale, come fece per I’m Your Boogey man, rifacimento assurdo di una canzone dei KC & The Sunshine Band. Rob Zombie è intenzionato ad accostarsi a questo tipo di progetti, sicuramente con coraggio, forse anche presunzione ed incoscienza, convinto di poter rielaborare in maniera totalmente diversa le vicende di un personaggio protagonista di una saga infinita ma soprattutto di un capolavoro intoccabile nell'immaginario collettivo. Dal canto suo, John Carpenter, afferma fieramente che tutti i suoi film sono passibili di rifacimento e diventeranno tali, quindi royalties a profusione e a buon rendere. L'Halloween di Rob Zombie nasce subito all'insegna delle polemiche, i fan stentano a crederci e il regista viene immediatamente attaccato, tanto che la sua inossidabile sicurezza, durante i mesi di lavorazione, comincia a vacillare. Il Myspace dell’artista diventa una specie di forum dove partecipa egli stesso, spesso nervosamente, e chiunque dice la sua. E’ interessante come il regista racconti di aver immediatamente rifiutato la proposta dei Weinstein Bros di fare un remake di Halloween, rinfacciandogli le stesse diffidenze che i suoi fan hanno poi lamentato a lui. Solo dopo diverso tempo e diverse proposte ha deciso di prendere il toro per un altro paio di corna. Non si spiega però il suo disappunto per il pubblico che ha inizialmente avuto le sue stesse reazioni. Rob spiega che farà un film diverso dove Michael Myers non è la macchina di distruzione che conosciamo ma ha uno spessore umano. Ed è solo vedendo il film che queste parole possono planare su un significato concreto. Per Rob Zombie il mito di Michael Myers assurge ad avere un significato talmente reale nella cultura popolare da poter essere considerato un personaggio realmente esistente, un icona oscura accostabile al concetto di morte violenta al pari di tanti serial killer realmente esistiti. Per quanto anche questi ultimi vengano idealizzati dalle masse come creature senza scrupoli né morale,dediti esclusivamente al concetto di omicidio, anche essi hanno percorso un doloroso cammino che ha portato all'abiezione nei confronti di amore ed empatia umana. Ecco come si arriva al punto di immaginare una infanzia per l'icona Michael Myers, "il male puro" incarnato nella carne, attraverso la celluloide.

More Human Than Human

Rob Zombie, per raccontare la triste esistenza del giovanissimo Michael, uno stupefacente Daeg Faerch alla sua prima interpretazione, si ispira alla miseria umana di Henry Lee Lucas e Charles Manson, due figure che non a caso sono alla base del personaggio di Otis nei film precedenti e
che,idealmente, potrebbe essere Michael da grande, senza gli anni di manicomio. Daeg è posseduto dalla parte, probabilmente pressato fino al limite del crimine per esprimere un tale male di vivere, un feroce rancore dietro il volto ancora androgino di un ragazzino sgraziato. Se c’è un vincitore assoluto in Hallowen, è lui. Un personaggio a parte, che pretende esistenza su dimensioni che vanno al di là del mito cinematografico. La frustrazione della sua fuga nei corridoi della scuola sul titolo del film ed il leggendario motivetto carpenteriano spinge la bile attraverso i vasi e diviene effige dell’opera. Inspiegabilmente però, Rob non calca troppo la mano contro il bambino e la sua infanzia non è sufficientemente terrificante per giustificare la sua trasformazione in serial killer. Si ha l'impressione di trovarsi davanti ad una serie di stereotipi annacquati ma soprattutto la parte di Sheri Moon, qui ancora musa di Rob Zombie, come madre di Michael ha un valore eccessivamente positivo per soddisfare l'economia della storia. Di contro, la realtà che circonda i personaggi è ancora più oscura e aberrante che nei film precedenti, le pareti sono sudice e vuote, i corpi nudi e straziati, persino il sangue è scuro e raggrumato nei film di Rob Zombie, una muta disperazione sfogata in una violenza che sembra essere necessaria.

We All Go Down for the God of the Moment

Per una impresa così ambiziosa (e rischiosa al limite dello spericolato) Rob Zombie recluta una squadra attoriale dalle qualità eccellenti. Una muta di cani di razza, quella di Halloween, che soddisfa il desiderio di lavorare con icone dell’ horror e outsider del cinema mondiale. Un parco attori da fare invidia a molti blockbuster in giro, non tanto per la popolarità dei nomi coinvolti ma per la loro qualità. Ritornano gli abituè del cinema di Rob, soprattutto da The Devil’s Rejects: la tripletta Sheri Moon,Bill Moseley e Sid Haig (questi ultimi in trasparenti camei) ma anche Leslie Easterbrook, Ken Foree e Danny Trejo, per una volta in una veste rassicurante, e soprattutto Tyler Mane che nei suoi due metri e passa di altezza diventa la lungocrinita nuova identità di Michael Myers. Accanto a loro Rob si toglie la soddisfazione di poter dirigere alcuni nomi che hanno fatto la storia del cinema di genere. Principalmente Malcolm McDowell è una scelta sapiente visto che l’attore aveva un po’ gettato via la sua carriera e quindi ridimensionato il suo cachè, rimanendo comunque l’illustre Alex De Large di Arancia Meccanica nell’immaginario popolare. Per sua stessa dichiarazione non influenzato dall’interpretazione di Donald Pleasance (McDowell assicura di non aver mai visto né Halloween né i suoi sequel) , il suo dottor Loomis è sicuramente molto più manieristico, concettualmente distante dall’icona di Carpenter, il medico/scienziato/stregone che si illude di sfidare il male. Differente il rapporto con Michael perché in primis è il paziente che è evidentemente un altro. Il Loomis di Pleasance è determinato nell’auto-infliggersi il destino di essere custode del male, che ha il dovere di contenere o imprigionare l’iniquità che si scatena per le strade attraverso Michael, senza speranza né redenzione. Il Loomis di McDowell è un personaggio più classico, che ha in cura un caso umano con cui matura un legame per amor di ricerca che diventa poi affetto e conoscenza intima, ha una coscienza dell’umanità di Michael che lo atterrisce di fronte alla sua brutalità. Il Dr Loomis è un perdente. A McDowell si uniscono alcuni volti noti del cinema horror e popolare in generale come Clint Howard, Dee Fallace, Richard Lynch e soprattutto un talento eccezionale come Brad Dourif, che nel film di Zombie sembrano prendere parte alla loro personale Hall of Fame.

See the Flesh Falling Everywhere

Non si sono sottolineate la presenze muliebri del film , Danielle Harris, Kristina Klebe e Scout Taylor Compton, la Laurie in carica, non per mancata celebrità ma perché interpreti esclusivamente nella seconda parte del film, dove le sorti si ridimensionano rispetto ad una prima parte importante. Una volta che la fuga di Michael inizia, Rob Zombie riporta il film sempre più vicino al suo modello originale o almeno apparentemente. Gli ultimi minuti di film rappresentano la parte più meramente slasher del film, dove lo stalking di Michael diventa sempre più mirato alla cattura della sorella ed a una illusione di riunione familiare. Probabilmente Rob Zombie lo negherebbe fino alla morte ma decide di dare ritmo alla pellicola conferendogli azione e iniziando un placido quanto imperterrito bodycount. Il che non è necessariamente un compromesso,, visto che era implicito che,a meno di non stravolgere completamente la storia, il film comunque parlasse di un assassino e quindi qualcuno doveva venire ammazzato. Quello che non torna,però, è la disumana esplosione di violenza di Michael, sopita per anni. E’ vero che Zombie ci ha mostrato la insensata ferocia del ragazzino ma ci ha infuso anche la sua umanità e la sua capacità di stasi dalla violenza. La trasformazione nella vecchia implacabile macchina di distruzione Michael Myers è fuori luogo e non trova giustificazione nelle scene di omicidio, pur ottimamente girate. Il film sembra avere un percorso personale, per il regista, solo per metà. Non c’è una vera e propria uscita e questo è dimostrato dall’indecisione su come decretare la fine di Michael. E’ molto facile, seppur legittimo, lamentare che l’infanzia di Michael non prevede traumi particolarmente shockanti da trasformare il biondo ragazzino nell’enorme furia distruttrice che vediamo nel finale. Anche volendo imputare una particolare sensibilità dell’animo del ragazzo, non c’è bisogno di esperienza clinica in psicanalisi per rendersi conto che nonostante tutto Michael poteva mantenere la ragione tenendo la madre, Sheri Moon, come punto di riferimento. Il fatto di ricevere amore incondizionato da parte della donna conferisce un motivo di contenimento dell’odio per il ragazzo. Rob Zombie ha mancato nel mettere la moglie nei panni di un personaggio negativo. Tuttavia, a detta del regista in numerose interviste, non c’è alcun collegamento tra la violenza di Michael e la sua penosa situazione familiare. Sempre dalle sue parole, che Michael sia nato in una famiglia povera o ricca, disagiata o felice non ha alcuna influenza, Michael è un reattore di furia omicidia che sarebbe comunque esploso, un natural born killer votato al male. Questo può essere anche ammissibile nelle intenzioni di Rob ma non traspare minimamente dal film, anzi allo spettatore viene suggerito il contrario. Meglio sarebbe stato dare a Michael un passato fortunato per poter biasimare il suo destino di sangue. L’ambizione di Rob di rieducare lo spettatore è lodevole ma tuttavia sprezzante perché contraria a regole che per ammissione lui stesso rispetta. Sintomatico dell’indecisione sul completamento dell’opera è il fatto che Rob Zombie , a breve dall’uscita nelle sale, sia tornato sul set a rigirare un paio di scene abbastanza centrali tra cui la fuga di Michael ed il finale del film. Questo ha determinato l’esistenza di due versioni del film, una è un workprint che è girato in rete, la cui diffusione non pare aver determinato il successo commerciale della pellicola, e una per i cinema, simile ma diversa. Senza naturalmente rivelare lo svolgimento dei fatti, sia noto che Rob Zombie ha potuto testare sulla sua pelle come la resa di una scena sullo script non ha lo stesso effetto sullo schermo. L’intenzione di Rob era quella di far ritornare in Michael l’essenza del mostro ancestrale, del Frankenstein da perseguitare, del King Kong abbattuto sull’Empire State Building, ma, come già detto, non si può lavorare esegeticamente per buona parte del racconto rendendo concreto, umano, “materico” il proprio personaggio per poi decidere di sgretolarlo come un pupazzo di creta. Questo è stato riconosciuto fallimentare anche dal regista che ha scelto una soluzione di ripiego forse ancora più improbabile. Soddisfatto o meno che sia come autore, Rob Zombie ha superato la sfida più ardua, quella del botteghino, sopravvivendo anzi uscendo vittorioso contro la diffidenza che lo aveva travolto all’inizio di questa avventura. La buona uscita da questo progetto ha un significato emblematico nella carriera di Rob che ha all’orizzonte un potere nei confronti di Hollywood molto superiore rispetto a prima. Quindi è solo il caso di aspettare il prossimo progetto che si auspica arrivi possa arrivare oltre le aspettative grazie all’esperienza di Halloween.

di Gianluigi Perrone

mercoledì 19 dicembre 2007

SPECIALE BLACK SNAKE MOAN


Un viaggio nel mondo del Blues attraverso le note di Son House...

You know, love's a hard ol' fall, make you do things you don't wanna do. Love sometimes make you feel sad and blue...


Ovvero "Sai,l'amore è come un duro colpaccio,ti fa fare cose che non vorresti fare. L'amore a volte ti fa sentire triste e disperato”. Parole di Son House che,chitarra in mano, apre su un filmato di repertorio Black Snake Moan con le basi della dottrina del dirty southern blues, il sound malinconico di coloro che vivono oppressi dalla povertà e dagli strazi del cuore. Quando niente è rimasto se non un lamento triste e una preghiera al Signore tutta la disperazione si trasforma in musica . Craig Brewer aveva cominciato la sua trilogia musicale con il fortunato Hustle & Flow,ambientato nel degradato ambiente dei reietti del ghetto di Memphis,tra un magnaccia che vuol diventare un rapper di successo e un gruppo di puttane senza speranza; la proseguirà con Maggie Lynn,dedicato al genere country. Per i territori sudaticci di Black Snake Moan (titolo mutuato da un pezzo di Blind Lemon Jefferson) non poteva che affidarsi alle ruvide e assolate piantagioni del Sud del Tennessee dove la comunità nera si riunisce in chiesa a cantare e sputare per terra e la massima aspirazione delle ragazze è farsi palpare il culo alla festa del liceo. Qui vive Lazarus,abbandonato dalla moglie,troppo in colpa per essere innocente,troppo vecchio per ricominciare,troppo solo per resistere al dolore. Qui (soprav)vive Rae,che aspetta il suo boyfriend partito in Afghanistan,in compagnia del suo "piccolo" problema di ninfomania,regalo lasciatole dal patrigno che abusava di lei. Anche Rae è sola e per questo cadrà,talmente in basso da rischiarci la pelle,fino a quando non la raccoglierà da terra Laz e troverà in lei il cammino per redimersi dal suo peccato.

Mmm, mmm, black snake crawlin' in my room


Leggenda vuole che Brewer non fosse per nulla convinto di dare la parte a Christina Ricci,la quale si era talmente innamorata del ruolo da affermare di voler lasciare la recitazione se non l'avesse ottenuto. Craig vedeva in Rae la semplice e stupidotta ragazza del sud modello Daisy Mae dei fumetti di Lil’ Abner,quindi rozza,mezza nuda e completamente svaporata,un personaggio che strideva con l'immagine di sofisticata dark lady dell'attrice californiana. A quanto pare però lei ha saputo conquistarsi i (pochi) panni di Rae tanto che si racconta di un provino eccezionale ed incredibilmente emotivo. Pochi giorni dopo Craig Brewer incontrò Christina in un bar e le regalò una scatola che conteneva la catena argentata che l'attrice avrebbe indossato durante il film. Un tributo alla sua devozione per la parte. Non ci sono dubbi ,la scelta fu azzeccata. Rae è modellata sulla Bambola di Carne di Elia Kazan ma, alle peccaminose fattezze post-adolescenziali di Carroll Baker aggiunge una natura insanamente selvatica tale da far pulsare le tempie. E' sicuramente il ruolo più intenso nella carriera di Christina Ricci che è tranquillamente comparabile alla Jennifer Jason Leigh di Ultima Fermata Brooklyn, parimenti devastata dalla vita ma anche pericolosamente sexy. Un pezzo di carne bollente ripetutamente abusato e ridotto ad un fuscello tremolante che implora tra gli spasmi di essere penetrato. E' una dicotomia disturbante quella che porta Rae sullo schermo: un irresistibile oggetto di desiderio in una mise sboccata e lasciva ridotta ad uno straccetto ed un paio di mutandine che trasmette una profonda amarezza per le continue umiliazioni,implicite ed esplicite,da cui è vessata. E' lei il Black Snake Moan del titolo,il "lamento del serpente nero" che la possiede come una tarantolata quando gli incubi ritornano sotto forma di frenesia sessuale:un graffiante e stridulo orgasmo doloroso.

Ah, hush, thought I heard her call my name
If it wasn't so loud and so nice and plain

Nella sua pur breve carriera cinematografica Brewer non ha mai nascosto una sincera passione per la cultura afro-americana(ma il ragazzo è bianco come i palmi di tutte le mani del mondo),non a caso dietro i suoi film c'è anche John Singleton.
Soprattutto la musica nera sembra fornirgli un grande trasporto tanto che ,al di là del tema trattato,Hustle & Flow vantava la presenza di Isaac Hayes,una delle menti funky degli anni '70 oltre che icona blaxploitation soprattutto per quel gioiello che è Truck Turner, come padrino di battesimo(almeno nel mainstream visto che Craig ha all'attivo anche il piccolo Poor & Hungry). Per il ruolo del vecchio bluesman dal cuore spezzato,Laz,la scelta era di lusso:accettano il ruolo sia Morgan Freeman che Samuel L. Jackson. Se il primo era più portato per via del physique du role,”Da Man” aveva dalla sua una storia artistica che non lasciava dubbi. Un personaggio di colore di umile estrazione sociale con una grande fede religiosa,una missione di redenzione e dottrina ed una inamovibile determinazione:vengono in mente Jules di Pulp Fiction,Elijah di Unbreakable ,Mr Garfield di 187 ed una infinità di ruoli affidati sempre allo stesso uomo che non fanno meravigliare se la produzione abbia spinto in una determinata direzione. Quella di Lazarus è una parte quasi biblica,intrisa di cultura conservatrice arcaica,profondamente religiosa come è la mentalità sudista che si incarna allo stesso modo in cui si esprimono i temi classici del blues rurale ed in fondo anche questa pellicola. Da idolo popolare quale è,Samuel Jackson non ha avuto problemi a immedesimarsi in uno stereotipo culturale,conferendogli spessore, arrivando a cantare con la sua voce i pezzi del film. Così,come in una continua ballata,i dialoghi retoricamente altisonanti sembrano semplicemente testi di una lunga piece spiritual di cui le immagini sono il caldo assolo.

You know, I cried last night and all the night before Gotta change my way a livin', so I don't have to cry no more

C'è chi si potrà chiedere come un film con tali elementi exploitation,tra cui una donna mezza nuda tenuta incatenata da un vecchio musicista nero fanatico religioso,possa viaggiare su binari così accomodanti ed atterrare su un terreno più soffice di quello che si poteva presumere. Basta riflettere sul fatto che Black Snake Moan è una blues ballad che,come tutte,poggia su concetti semplici ed universali. Quindi racconta di qualcuno che ama intensamente e ne soffre nonostante tutto,di qualcuno che cerca la redenzione ad ogni costo attraverso azioni opinabili,di qualcuno che trova la salvezza tra le braccia di chi detiene le proprie radici,di qualcuno che continuerà a soffrire ma,alla fine,è più forte perchè sa di non essere più solo. You know, love's a hard ol' fall, make you do things you don't wanna do. Love sometimes make you feel sad and blue...

di Gianluigi Perrone
Soundtrack di Son House e Blind Lemon Jefferson